L’uomo iniziò a estrarre l’oro circa 6000 anni fa, nelle regioni in cui sorsero le prime civiltà antagonistiche, cioè nell’Africa settentrionale, in Mesopotamia, nella valle dell’Indo e nel Mediterraneo orientale.

E’ talmente remoto il periodo in cui s’iniziò questa pratica che le sue tracce, conservate nei racconti mitologici, sono quanto mai oscure. Non ci riferiamo ovviamente alla favola del re Mida, quanto alla non meno famosa leggenda del Vello d’oro, di cui forse pochi sanno che quella pelle di montone, una volta immersa nelle rapide acque dei torrenti montani, era in grado di svolgere una funzione di filtro e quindi di trattenere piccolissime particelle d’oro.

Stando a calcoli molto approssimativi si pensa che in tutta la sua storia sia stato estratto qualcosa come 130-165.000 tonnellate d’oro (un cubo coi lati di 20 metri). La cifra non è alta, ma non si deve dimenticare che questo minerale, una volta tolto dalla terra, grazie alle sue proprietà naturali e sociali, non scompare, non rientra nella terra, nell’acqua o nell’aria.

Questo ovviamente non significa che quando l’oro era in circolazione sotto forma di moneta non si consumasse, o non si siano perduti ingenti quantitativi d’oro. Si pensa anzi che almeno il 10% di tutto l’oro estratto sia andato irrimediabilmente perduto, o nei fondali marini o in tesori sepolti chissà dove, o polverizzato durante la lavorazione, consunto nell’impiego delle monete. Oggi addirittura il suo impiego nelle tecnologie più avanzate rende antieconomico il suo riutilizzo.

Se ne è estratto così tanto che l’attuale produzione mondiale (circa 2.800 tonnellate) aggiunge solo il 2% ogni anno a quella cifra.


Nell’Antico Egitto o nella Roma imperiale l’oro veniva estratto con mezzi non molto diversi tra loro: picconi di pietra o di bronzo, e sempre da schiavi di stato, in quanto le miniere o i giacimenti alluvionali erano generalmente monopolio statale (in certi casi potevano appartenere a corporazioni di sacerdoti).

Poteva capitare, come p.es. nel Sudan, che l’oro venisse estratto da cercatori liberi, i quali però dovevano allo Stato (in questo caso egizio) una certa quota delle quantità ricavate.

Anche lo Stato romano arrivò ad affittare a privati appezzamenti sul fiume Po, dove si trovava oro alluvionale, ma le quantità erano talmente scarse che nessun imprenditore riuscì mai ad arricchirsi in maniera spropositata. Il “vero” oro lo Stato romano lo estraeva nelle miniere spagnole.

In Italia i “salassi”, provenienti dalla Val d’Aosta, sfruttarono a lungo anche la miniera d’oro di Vittimuli, nel territorio vercellese, ma i gestori, secondo una legge censoria, non potevano usare più di 5000 operai. Si scontrarono con lo Stato romano, perché volevano impadronirsi totalmente degli scavi, sicché in 40.000 furono assoggettati dagli eserciti di Terenzio Varrone, che poi li mise in vendita.

Significativo il fatto che quando si trovò oro nella Transpadana, il governo romano disattivò le miniere in virtù di un antico decreto del senato inteso a risparmiare tutte le miniere d’Italia, sfruttando quelle straniere.

Al tempo di Polibio (II sec. a.C.) presso Aquileia l’oro era così abbondante che folle di gens libera provenivano da tutta Italia, ma furono cacciate dalle popolazioni locali (i taurisci). Questo permise a Roma d’intervenire, anche perché in due mesi il metallo perse un buon terzo del suo valore in tutta la penisola italiana.

Generalmente l’oro veniva estratto in tre modi: col lavaggio della sabbia (zone aurifere superficiali); scavando dei pozzi (zone incassate nella roccia); con la frantumazione di costoni montuosi (zone morenico-rocciose): metodo, quest’ultimo, molto pericoloso, sia perché il fumo e il vapore soffocava gli operai, sia perché spesso si verificavano disastrose frane. Da notare il sistema idraulico dei romani, con cui si trascinava il materiale estratto, si ritroverà, secoli dopo, in California.

La condizione dei minatori era semplicemente spaventosa: gli schiavi dovevano lavorare nelle miniere fino a morirne. Qui infatti venivano mandati i ribelli, i detenuti, i condannati ai lavori forzati, i cristiani o le eccedenze di manodopera rispetto ai lavori agricoli, artigianali, domestici. Plinio il Vecchio racconta che chi lavorava nelle miniere spagnole non vedeva la luce del sole per mesi interi.

E pensare che l’oro, nella classificazione delle materie pregiate di quel tempo, veniva soltanto al decimo posto, preceduto dalle piume per i cimieri dei generali.

In effetti la coniazione della famosa moneta chiamata “aureo” inizia solo con Cesare, nel 49 a.C.: prima di allora lo si usava esclusivamente come ornamento, sia femminile che maschile (in quest’ultimo caso veniva utilizzato per le armi e gli equipaggiamenti militari, i cavalli, i copricapi, per vesti trionfali, corone, statue celebrative). Con l’oro i romani tramavano anche tessuti e tappeti, decoravano mobili, pareti interne, soffitti, vasellame…

Sotto Tiberio il vasellame d’oro massiccio da tavola venne vietato a tutti tranne che all’imperatore, ma con Aureliano (III sec. d.C.) se ne restituì quest’uso sfarzoso ai ricchi.


Nel mondo antico, prima della caduta di Roma, le due principali regioni produttrici di oro erano l’Egitto (insieme all’attuale Sudan) e la Spagna.

Gli egiziani iniziarono a ricavare l’oro dai fiumi, ma passarono ben presto ai giacimenti primari del Sudan, dell’Etiopia, dello Zimbabwe…(molto redditizie furono le miniere di Uadi Hammamat, presso il mar Rosso), arrivando a scavare fino a 100 metri di profondità e scoprendo vari metodi di estrazione, fusione e lavorazione, poi adottati da molte civiltà antiche. Diodoro Siculo, nel I sec. a.C., parla di un incredibile sfruttamento di manodopera gratuita, in cui erano coinvolti persino le donne e i bambini.

Le quantità dell’oro egizio erano talmente grandi da suscitare gli appetiti di tutti i conquistatori del III, II e I millennio a.C. Pur di averlo, i principi d’Assiria, Babilonia e di altri Stati del Medio Oriente erano disposti a offrire qualunque cosa: carri da guerra, armi d’acciaio, vasellame… Ma più che altro erano disposti a scatenare guerre devastanti.

E’ ben documentata l’azione militare intrapresa, nel VII sec. a.C., dal re assiro Assarkhadon, che sconfisse e saccheggiò l’Egitto, portando molti tesori a Ninive, dove un secolo dopo furono depredati dai babilonesi e, nella seconda metà del VI sec. a.C., dai persiani di Ciro, il cui successore, Cambise, si spinse fin nel profondo sud dell’Egitto, ricco d’oro, nella speranza di ottenere qualcosa, ma vi perì col suo esercito.

Nel IV sec. a.C. tutto l’oro del mondo sembrava essere concentrato nei forzieri dei re persiani, almeno fino a quando non intervenne il macedone Alessandro Magno, che riuscì a sequestrarne circa 10.000 tonnellate (ivi incluso l’argento). Dopo la fine del suo impero, l’enorme tesoro si dissolse nei mille rivoli del cosiddetto “mondo civilizzato” di allora.

Tuttavia i principali diffusori dell’oro nel Mediterraneo, dalla metà del II millennio alla metà del I millennio a.C., non furono gli egizi ma i fenici.

Molto probabilmente dipese da loro la massiccia estrazione dell’oro nella penisola dei Pirenei, anche se solo coi romani, dopo la fine delle guerre puniche, ebbe un impulso decisivo.

Qui, inizialmente, lo si raccoglieva dalle sabbie rivierasche, ma quando si trovarono i giacimenti primari la produzione raggiunse i livelli dell’Egitto. Anzi, col tempo, si arrivò a dei picchi così elevati da restare ineguagliati sino al XIX sec.

Plinio il Vecchio, che si trovava in Spagna come alto funzionario, scrisse che nelle sole province di Asturie, Galizia e Lusitania si estraevano oltre 6,5 tonnellate d’oro ogni anno, che è la stessa quantità, all’incirca, di quella estratta oggi da paesi come il Messico o la Colombia.

Al tempo dei romani si estraeva oro anche in Gallia, nei paesi balcanici e in parte in Italia. Dalla Gallia Cesare portò tanto oro che il suo prezzo diminuì di 1/4 rispetto a quello dell’argento. E sotto Nerone, in zona dalmata, se ne estraevano oltre 16 kg al giorno.

Traiano, agli inizi del II sec. d.C., conquistò la Dacia di Decebalo e quindi le sue miniere d’oro in Transilvania, risanando in parte le dissestate finanze dell’impero.

Con il crollo dell’impero romano molto dell’oro saccheggiato finì in oriente e comunque per tutto il Medioevo ne rimase ben poco nei regni cosiddetti “barbarici”.

E’ curioso il fatto che di tutto il lavoro di migliaia di esperti artigiani, cioè gli orafi egizi, mesopotamici, minoici, greci ecc., ci sono arrivate solo pochissime cose, proprio perché per secoli si era ritenuto che il valore del metallo insito negli oggetti decorativi, sia religiosi che laici, fosse di molto superiore a quello artistico. Di qui le continue fusioni e rifusioni di questo metallo lavorato, spesso al semplice scopo di coniare monete circolanti. P.es. nei musei russi esistono pochissimi oggetti d’arte orafa precedenti l’invasione tartaro-mongola, semplicemente perché, dopo i saccheggi, furono completamente trasformati.


Un breve riferimento va fatto all’Antico Testamento, poiché qui la parola oro compare ben 415 volte, sin dal Genesi (2,10-12), ove si parla di una non meglio identificata regione di Havilah (Avila), ricca di oro (forse la parte centrale dell’Arabia Saudita).

Persino quando si parla di Abramo, lo si descrive come un personaggio arricchitosi anche con oro e argento (Gen 13,2).

In realtà nell’A.T. l’oro, pur svolgendo una funzione mercantile, conformemente al periodo in cui quei testi furono elaborati, cioè tra il II e il I millennio a.C., non viene mai usato come “denaro”.

Non solo, ma per la Bibbia l’oro ha una semplice funzione sociale, non un’origine divina, per cui non è mai oggetto di culto, come invece lo diventa nelle religioni politeistiche delle società antagonistiche, dove la religione santifica l’oro perché la società da tempo lo considera molto prezioso.

Testo Enrico Galavotti